ll futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni. (Eleanor Roosevelt)

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sabato 24 novembre 2007

Il francese non ci sta

Oggi la Sorbonne è chiusa. Da una settimana abbondante studenti e professori protestano contro l'autonomia dell'Università e altre decisioni del governo di Sarkosy. Questi ragazzi vedono l'0autonomiascolastica come una sorta di privatizzazione e hanno paura che la loro istruzione venga comprata dal miglior offerente. Sono scesi in piazza e vi restano. E' uno sciopero! Non un ponte sul week-end. Da noi lo sciopero è un'azione da venerdì: una parata scortata dalla polizia senza disordine. Insignificante. In Francia lo sciopero dura fino a che non cambia qualcosa, sennò non serve a nulla. Quando è stata proposta in Francia una legge molto simile alla nostra legge 30 sulla regolamentazione del primo impiego è scoppiata la rivolta. Noi, non ce ne siamo neanche accorti! Ce la siamo fatti mettere nel culo e siamo stati zitti, o quasi. Salvo qualche mugugno e uno scioperò, un venerdì

7 commenti:

Anonimo ha detto...

Forse è vero che (mediamente!) in Italia stiamo ancora "troppo bene". Ho girato l'Europa e ho visto in genere una vita più sobria, case più semplici, meno pretese, più tendenza dei giovani ad arrangiarsi, a rendersi autonomi e quindi ad acquistare anche quell'indipendenza "mentale" che favorisce l'aggregazione e la lotta. Qui c'è una tendenza a strascicarsi (chi può - ma sono in molti) sull'onda lunga del boom economico, che da noi è stato più "violento" che altrove. Famiglie abituate a qualcosa di simile alla fame si sono trovate improvvisamente, nel dopoguerra, in condizioni di comprare case, e magari anche seconde case, e generi di lusso superflui. L'orgia consumistica ha sradicato valori e consuetudini discutibili ma "esistenti" e in molti casi non vi ha sostituito nulla, lasciando il vuoto. Il vuoto culturale è stato riempito solo da piccoli gruppi che si sono impegnati (il famoso Sessantotto, come tutti i movimenti rivoluzionari, ha riguardato poi sì e no il 10% dei giovani: la maggioranza è sempre silenziosa, assente e strafottente, sempre); mentre sul piano economico si è creata un'abitudine alla disponibilità quasi illimitata di beni. E molti di quei beni sono ancora "disponibili": siamo precari, disoccupati, sfruttati, interinali, ma abbiamo (non tutti ma molti) il rifugio di una casa comprata dai genitori o dai nonni nel dopoguerra, e fino agli anni Settanta. E magari anche qualche piccola rendita ereditaria, originatasi nello stesso periodo di "boom". Forse questo impedisce alla rabbia di scoppiare. Però l'onda lunga va a esaurirsi. Io possiedo (in prospettiva) una casa, anzi una casa e mezza, di famiglia. Ma nella mia vita, con il mio lavoro (e ho sempre lavorato, a tempo pieno a partire dai 23 anni), non sono più riuscito a comprare un cazzo. Quindi non lascerò ai miei figli quello che ricevo, bensì molto meno: l'esatto contrario della generazione precedente. E allora i beni accumulati negli anni della crescita economica selvaggia si esauriranno, e se non ci sarà nuovo lavoro pagato giusto, la rabbia crescerà davvero, e si lotterà. Perché lottare, lottare davvero, alla fine non è niente di comodo: come dici tu, Chiara, non è fare la manifestazioncina il venerdì, è farsi un culo così, rischiando. E questo non lo si fa per sport, lo si fa solo quando il culo comincia a bruciarti davvero. Ma non so prevedere che cosa accadrà, naturalmente.

Anonimo ha detto...

P.S. I rimandi al mio blog, qui sotto in fondo al tuo, adesso sono due, ma nessuno dei due funziona. Ma non prendertela, ci vuole un po' a impratichirsi in queste cose! :-) Non oso chiederti se verrai alla mia lettura a Torino venerdì, ma, nel caso, sappi che da me puoi fermarti a dormire in un'ottima (insomma: normale!) brandina singola nella stanza di là! Ciao!

Chiara Borghi ha detto...

Spero la lettura sia andata bene, io ero a Venezia con Claudio, viaggio di compleanno.
Non lo so se l'indifferenza di noi giovani precari verso le leggi che ci danneggiano il futuro già danneggiato dai nostri genitori sia una concausa del benessere prodotto dal boom degli anni 50.
Io sono nata nel 1981 e da quando mi ricordo ho sentito parlare di crisi economica, di salari statali bloccati, di governo ladro, di tangenti e politici corrotti, di famiglie in difficoltà. Il boom è durato forse vent'anni, poi i soldi sono finiti e, perdonami, ve li siete mangiati voi nati negli anni '50. E' capitato, dopo la fame e la guerra i miei nonni hanno viziato i miei genitori e loro, viziati, hanno sputtanato tutto. A noi tocca ricominciare, peccato che molti di noi "giovani inculati" (permetti l'espressione ma rende bene l'idea) non se ne sono ancora accorti

Anonimo ha detto...

La crisi del lavoro (che è poi quella fondamentale, perché se hai un lavoro che ti rende autonomo perde importanza il "lascito" genitoriale) è cominciata più da lontano, e credo sia legata anche alla globalizzazione. La lettura mia è venerdì prossimo, quindi NON c'è ancora stata, è il 30 novembre, sei ancora in tempo! :-) Buona giornata!

Chiara Borghi ha detto...

La globalizzazione in certo senso dovrebbe facilitando i rapporti economici fra gli stati favorire la "crescita" del lavoro. in realtà il processo socio-culturale che stiamo vivendo e chiamiamo globalizzazione è una cosa diversa. In questo momento storico si tende a classificare il mondo con teorie e termini che non rispecchiano la realtà. Secondo me si continua a osservare la realtà con metodi che non sono più reali, cioè non hanno più senso nel qui e ora.Come bere l'acqua nel pitale e storcere il naso. Forse il problema è qui, la realtà c'è sfuggita da sotto gli occhi e probabilmente sarà in giro a cazzi suoi mentre noi ne guardiamo il modellino in scala. Nemmeno il capitalismo e più capitalismo, è un'altra cosa ma non abbiamo il termine per definirla e entriamo in crisi.

Anonimo ha detto...

C'entra relativamente (però un po' c'entra!); ma poi dato che il tuo ragazzo si occupa di cose immobiliari (e te ne sei occupata anche tu), metto qui il rimando a un messaggio di oggi sul mio blog, sui prezzi delle case. Ciao!

Anonimo ha detto...

Sì, la perdita del senso di realtà credo sia legata allo stacco fra vicinanza reale e vicinanza virtuale. In teoria sappiamo tutto di tutto il mondo. E in meno di un giorno, in aereo, arriviamo all’altro capo del mondo. In pratica non sappiamo quasi niente. Non sappiamo che cosa pensa il nostro vicino di pianerottolo, lo guardiamo con diffidenza, non lo capiamo. I viaggi veloci non aiutano a capire: c’era uno che diceva che non conosci un paese se non lo hai attraversato a piedi. Ed è vero. Ho percorso tante volte l’autostrada Torino-Savona ma una volta che, di notte, ho cercato di raggiungere Torino con le strade provinciali da Cairo mi sono perso completamente, e non ero neanche a piedi. Hai ragione, guardiamo un modellino in scala, quello che ci propongono i mezzi di comunicazione, il piccolo mondo mostrato da uno schermo. Ma è solo una superficie, un modellino appunto: non è la realtà. Sai, quella sera a casa tua cercavo di capire la posizione del monte, della strada, della ferrovia sotto, e dell’autostrada, per orientarmi, per trovare un riferimento, per sapere dov’ero. Rischiamo di perdere la nozione dello spazio-tempo. È per quello che mi piace tanto quella canzone di Guccini che associa l’odore del tuo paese, i ciuffi di parietaria attaccati ai muri, con Istanbul e Barcellona, e trova lo slancio la grazia il volo «impliciti» dentro il semplice tuo camminare. Perché è lì, è lì che io cerco, potrei girare tutti gli aeroporti del globo e non riuscire mai a sapere cos’è, dov’è, com’è Cadibona. E forse sono andato fuori tema ma forse no, perché la strada per recuperare il senso della realtà passa da lì, da un passo lento e attento sulla vicinanza. Reale.