ll futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni. (Eleanor Roosevelt)

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mercoledì 6 febbraio 2008

Abitudini, abitudinari

Mentre aprivo questa pagina mi sono resa conto di essere abitudinaria. In effetti, da quando non lavoro, mi alzo, studio un po' al mattino in vista degli esami di giugno, mangio pranzo, guardo C.S.I su Sky insieme a mia sorella, porto da mangiare a Zoe, il mio cane, lascio che corra per una ventina di minuti nella vigna, poi vado a scrivere sul mio blog, controllare la posta elettronica. Due volte a settimana vado in palestra, qualche impegno di partito la sera. Questi i miei giorni, tutti uguali. Mi ricordo che anche quando andavo al liceo ero molto abitudianaria e mi ricordo che ogni mercoledì pensavo la stessa cosa: "Siamo a metà settimana".
Per molti tutto questo può sembrare noioso, una vita così tremenda, invece a me piace. Mi piace avere un programma, orari, scadenze. Forse un carattere del genere è poco artistico, dovrei essere una scrittrice svalvolata, invece no. Anche quando scrivo ho un programma e degli orari. Forse è questa inlinazione che non mi permette di accettare di essere precaria nel lavoro, avrei bisogno di un programma fisso.
Mi sento come Elio: sono un abitudianrio....

3 commenti:

Carlo Molinaro ha detto...

Si ha il carattere che si ha, si può essere abitudinari di carattere. Però lascia che ti dica una cosa, e non prenderla come l’ennesima inutile e fastidiosa avance, te la dico disinteressatamente, te la dico perché fra i 25 e i 30 anni ho passato un periodo molto abitudinario e poi mi sono accorto che mi stavo ingannando.
Sì, l’abitudine inganna: è comoda, può farti star quasi bene, rilassarti, riposarti – ma in realtà ti toglie spazio, ti toglie slancio, ti limita, addirittura ti blocca. Io il lavoro fisso ce l’avevo (all’epoca – ehm – era più facile trovarne, erano gli ultimi anni del boom economico, le aziende avevano margini di guadagno che consentivano di tenere dipendenti persino in soprannumero), e a 25 anni mi sono sposato, ed era molto rassicurante andare tutte le mattine in ufficio, tornare a casa dalla mogliettina (che in qualche sia pure imperfetto modo amavo), sapere che il 27 del mese arrivava lo stipendio e ci si poteva regolare con tutte le spese.
Eppure, ripensandoci dopo, mi sono accorto che in quegli anni abbastanza cruciali mi chiudevo in un bozzolo, perdevo le occasioni, non comunicavo con la realtà in divenire. E non ero felice: quella che sembrava serenità era solo un’ombra pallida. Io credevo che fosse il massimo che potevo ottenere dalla vita, e invece non era vero. Tant’è che la situazione si è andata poi man mano incarognendo, da «poco bene» sono passato a «male», finché c’è stata una svolta, finché ho scoperto che c’era ben altro, che il mondo era vasto, pieno di meraviglie e io potevo afferrarle, viverle davvero, quelle meraviglie. E sono fuggito da quella realtà «abituata», fuggito dal matrimonio e anche dal lavoro fisso, e chi osserva le cose dall’esterno dice che sono pazzo, perché adesso vivo da solo e non so quando e come lavoro e quando e come mi pagano.
Ma sai una cosa? In quegli anni sui venticinque-trenta, che secondo i canoni dovrebbero essere abbastanza ruggenti, andavo a dormire sempre verso le undici. Ho uno strano ricordo, la radiosveglia sul comodino, con i suoi numeri rossi, che segna le 22.55 mentre mi infilo nel letto. Non sarà stato sempre così, ovvio, ma mi è rimasta impressa quell’ora, probabilmente era frequente. E passavo i finesettimana con gli amici di mia moglie e poi anche con i suoceri (sigh) nella casa in montagna. Facevo come l’impiegato di De Andrè: «contavo i denti ai francobolli / dicevo “grazie a Dio” e “buon Natale” / mi sentivo normale / eppure i miei trent’anni / erano pochi più dei loro / ma non importa adesso torno al lavoro». Finché la bomba in testa m’è scoppiata.
E adesso che gli anni sono un po’ più di trenta corro le nottate, parto quando voglio per dove voglio, salto i pasti, faccio cinquecento chilometri per abbracciare chi mi vuole bene in un giorno qualsiasi, m’impegno in ciò che mi va e che credo giusto, mi lancio in qualsiasi cosa, tengo la casa peggio di uno studente squattrinato, faccio a meno dell’auto per un sacco di tempo poi mi compro una vecchia Panda usata perché mi sono invaghito di luoghi dove non passa il treno, non ho la televisione (e mi sembra incredibile il tempo che sprecavo davanti al televisore all’epoca delle pacate abitudini), non ho tempi, programmi, finisco di fare una doccia e prima di vestirmi, mentre asciugano i capelli (il phon non lo uso mai), do un’occhiata sul computer e vedo un messaggio a cui voglio rispondere, e lo sto facendo, in mutande, e mi vestirò poi, e cenerò poi, forse, se avrò fame. E ho i miei momenti di angoscia, a volte, certo, ma ho sperimentato pure i momenti di felicità, e la bevo tutta, c’è il chiaro e c’è lo scuro ma non c’è più quella penombra costante dove la vita era solo un sorso interrotto, un accontentarsi, un sogno dimezzato.
Poi tutte le vite sono diverse, non è detto che la tua assomigli alla mia, e ognuno deve percorrere la propria strada, non ha senso dare consigli eppure sento di doverti dire di stare attenta all’abitudine. Può succedere che ci si rinchiuda interminabilmente in un porticciolo dopo la stanchezza e i pericoli di un mare in tempesta. Secondo me è uno sbaglio. Anche perché il mare non è sempre in tempesta. Il mare è soprattutto vasto, infinito, bellissimo, azzurro.
Insomma, questa cosa te la dovevo dire, e adesso mi vesto e magari mi faccio due spaghetti al pomodoro. Ah, sono contento che oggi hai messo la «nostra» foto sul tuo blog. Sì, riesco a essere contento di piccole cose, senza smettere di sognare – e tentare – le grandi. Ma l’abitudine no... L’abitudine sa di logoro, di spento, alla fine di morto. Tu sei troppo, per farti inghiottire dall’abitudine. Sei di più. Buona serata, ciao.

Chiara Borghi ha detto...

Non vuol dire non essere aperti, vuol dire darsi dei ritmi, a me piace.
La tua esperienza è diversa perchè tu vivi da precario con alle spalle una vita di lavoro fisso con relativa liquidazione, io non ho niente e non posso andare via da casa di mia madre. Anche se vivo sotto, da sola, è pur sempre di mia madre ed è così piccola che non può trasferirsi Claudio. I tempi sono diversi, mi vivo il mio

Carlo Molinaro ha detto...

Certo, ogni vita è diversa! Ti ho solo esposto la mia esperienza, perché ascoltare esperienze altrui può sempre essere utile. Almeno, a me qualche volta è servito. Ciao!